Verso un’economia meno globalizzata
Il modello di gestione industriale di matrice nipponica “just in time”, che prevede una produzione molto snella con stock di magazzino ridotti al minimo, sembra una strategia aziendale non più attuabile. Due anni di pandemia e il conflitto russo-ucraino hanno completamente ridisegnato le catene di approvvigionamento delle materie prime e dei semilavorati, causando colli di bottiglia fino ad ora inimmaginabili.
Nutriamo il pensiero che la globalizzazione – nell’accezione più estrema del termine, quella utilizzata negli anni compresi tra il 1990 e il 2020 – probabilmente non esisterà più, come non esisterà più il vecchio piano del protezionismo e della guerra di tutti contro tutti, che in passato ha generato solo inefficienze.
Secondo i dati dell’UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo) nel 2021 gli scambi globali hanno raggiunto il livello record di 28,5 mila miliardi di dollari, con un incremento del 25% rispetto al 2020 e del 13% rispetto al periodo pre-pandemia. Peraltro, nel 2020 la contrazione degli scambi internazionali è stata decisamente inferiore rispetto al 2009 quando la crisi finanziaria globale aveva avuto un impatto ben più pesante sull’economia globale. Ciò significa che, nonostante il Covid e le conseguenze, il sistema commerciale globalizzato ha dimostrato di saper reggere agli shock.
Certamente, la guerra in Ucraina rappresenta un altro stress-test mondiale le cui conseguenze non sono ancora del tutto chiare. Il conflitto ha provocato una situazione simile a quella creata dalla pandemia, ossia una crisi sul lato dell’offerta con relativa impennata dei prezzi di energia e materie prime; si pensi infatti che nell’eurozona l’inflazione ad aprile ha raggiunto il livello record di 7,5%. La causa principale: l’aumento dei prezzi delle componenti più volatili, ovvero energia e beni alimentari. E come nel caso della pandemia, lo shock dell’offerta potrebbe portare ad uno shock della domanda con conseguente frenata della ripresa economica (le previsioni di crescita globale sono riviste al ribasso dall’OECD) e creare, nello scenario peggiore ipotizzato dagli economisti, stagflazione.
Un’importante differenza rispetto allo shock pandemico è che lo shock dovuto al conflitto è nato in un’area molto meno cruciale per gli scambi internazionali (fatta esclusione per il grano, la Russia non è confrontabile con la Cina in termini di peso nel commercio mondiale) ma molto più impattante a livello locale soprattutto per la federazione russa. Le dimensioni della Russia sono relativamente limitate; contribuisce solo per l’1,7% al Pil globale e per circa l’1,5% al commercio mondiale. Inoltre, si trova in una posizione di vulnerabilità rispetto ai suoi principali partner commerciali.
Lato UE la Russia pesa solo il 5% dei flussi commerciali, dal lato moscovita gli scambi con l’unione europea pesano per il 37% del suo import-export (fonte ISPI). La Cina, invece, vale il 14% delle esportazioni russe e i flussi commerciali con Pechino sono in continua crescita.
Nel breve periodo, secondo questo scenario si potrebbe ipotizzare che la Russia soffrirà una pesante recessione. La Banca Mondiale prevede che il Pil di Mosca si contrarrà almeno del 10% nel 2022, inoltre la quasi totalità delle migliori aziende tech mondiali non forniranno più componentistica alla federazione russa con pesanti ricadute per il futuro. Anche la leader mondiale dei droni, la cinese DJI, ha ufficialmente sospeso gli affari con la Russia per evitare di legare i suoi droni all’immagine data dal loro uso nel conflitto.
La supply chain resterà sotto pressione, ad esempio la rotta marittima Mediterraneo-Mar Nero è praticamente bloccata, con il prezzo dei noli dei cargo che trasportano cereali da Russia e Ucraina raddoppiati nelle ultime settimane.
Nel medio-lungo periodo, ci potremo attendere un incremento delle iniziative di regionalizzazione commerciale, soprattutto attorno ad alcuni settori e filiere produttive strategiche. Nel quadro dell’approccio regionalizzato ci potremo aspettare un aumento della produzione europea di beni intermedi ad alta intensità tecnologica, con un progressivo sganciamento dall’Asia, soprattutto per la parte dei chip. Ad, esempio l’Europa ha scommesso sui microchip fatti in casa lanciando il suo piano (European Chips Act). Il fine: ridurre la dipendenza dai giganti asiatici. Si parla di 15 miliardi di euro di investimenti entro il 2023, che si aggiungono ai 30 miliardi di euro già stanziati nel piano Next Generation EU.
Il passo successivo alla regionalizzazione sarebbe la creazione di blocchi economici e di influenza commerciale contrapposti (occidente-oriente) che però potrebbero generare situazioni di tensione nel breve e nel medio-lungo termine sui mercati e creare nuovi colli di bottiglia negli approvvigionamenti. L’esempio principale è la Cina, che attualmente vale oltre il 10% delle esportazioni europee e il 22% delle importazioni, e una tensione commerciale potrebbe creare una nuova paralisi lungo le principali supply chains dei settori manifatturieri. Verrebbero a mancare input cruciali per le economie europee (in particolare per quelle italiana e tedesca, che sono essenzialmente economie di trasformazione) oltre che un mercato di sbocco sempre più importante per le merci europee. Nel medio-lungo periodo, si potrebbero creare due schieramenti: da una parte i Paesi occidentali, dall’altra la Cina che assorbirebbe nella sua orbita geoeconomica la Russia (che vale dieci volte meno a livello di popolazione e di Pil) e gli altri Paesi del Sud-Est asiatico. I potenziali danni economici di questa separazione sarebbero significativi per entrambi i blocchi. Non è ancora molto chiara la posizione dell’India, che da una parte dipende dalla Russia per l’approvvigionamento di armamenti, dall’altra è protagonista di continue frizioni con la Cina al confine con il Tibet ma intrattiene ottimi rapporti con l’occidente (Usa e UK in primis)
La creazione di blocchi contrapposti potrebbe portare a nuovi sistemi di pagamenti internazionali. La Cina infatti mediante il CIPS in Renmimbi, che altro non è che un circuito parallelo allo swift (Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication), vorrebbe porre sotto pressione la supremazia del dollaro nelle transazioni internazionali (attualmente utilizzato nel 40% delle transazioni contro al 3% del Renmimbi). A tal proposito al fine di togliere potere al biglietto verde statunitense Vladimir Putin ha riesumato il 23 giugno il vertice dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), riunione tenutasi in videoconferenza nella quale Putin è stato molto chiaro e perentorio: rottura con l’Occidente e nascita di un nuovo ordine mondiale contrassegnato dalla fine dell’egemonia americana.
In ogni caso, sembra che la fine della globalizzazione sarà, almeno per il momento, rimandata. Ciò non significa che tensioni commerciali svaniranno, ma i benefici derivanti dal mantenere il sistema di scambi globali in atto ad oggi superano gli svantaggi. E tutti gli attori coinvolti ne sono consapevoli, dovendo ancora fare i conti con una fame di materie prime, tecnologie e input strategici che negli anni continuerà a crescere.