La lotta contro l’inflazione è terminata?
Nell’ultimo anno, la Fed e la Bce hanno condiviso una politica monetaria intransigente e restrittiva con l’obiettivo di combattere un’inflazione, abbondantemente sopra il livello obiettivo del 2%, molto recidiva e persistente.
In Europa la causa scatenante dell’inflazione è attribuibile all’aumento del costo dell’energia e delle materie prime, dovuta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, l’Europa, infatti, ha subito uno shock energetico molto impattante, a causa della sua dipendenza dal gas naturale russo. Negli Stati Uniti l’aumento del tasso di inflazione è ascrivibile al fenomeno definito come “greedflation”. È una strategia di prezzo che le aziende utilizzano nei periodi di forte inflazione per incrementare i margini di profitto. In ambienti fortemente inflazionati infatti, i consumatori sono meno accorti e tendono ad accettare un prezzo alto. Questa tacita approvazione ha delle ripercussioni sull’intero sistema economico in quanto: l’aumento dei prezzi comporta la perdita del potere d’acquisto, che sarà colmata con un aumento salariale (questo accade prevalentemente in Usa dove il mercato del lavoro è molto dinamico) e a sua volta questo incremento innescherà una spirale inflazionistica.
Ma l’”avidoflazione” (italianizzazione di greedflation) ha solo contribuito a surriscaldare un’economia a stelle e strisce già vigorosa a causa di eccezionali e quasi illimitati interventi di immissioni di liquidità attuate dalla Fed durante il periodo pandemico. Tali politiche monetarie hanno sì contribuito a puntellare i mercati e a frenare spirali incontrollate di crisi finanziaria ed economica ma hanno inevitabilmente alimentato la domanda aggregata e il mercato del lavoro. Questo fenomeno, di correlazione tra lavoro, domanda e inflazione, in macroeconomia viene descritto con la curva di Phillips. Secondo gli studi dell’economista Alban William Phillips, infatti, tra il tasso di inflazione dei prezzi e dei salari nominali e il tasso di disoccupazione sussiste una relazione inversa ovvero quando il tasso di disoccupazione è basso, il tasso di inflazione dei prezzi e dei salari è elevato, viceversa, quando il tasso di disoccupazione è elevato il tasso di inflazione è basso.
In Europa ora che il prezzo dell’energia è in calo e che le politiche delle Bce molto aggressive producono il risultato sperato, ovvero, continuare una politica monetaria severa e rigorosa potrebbe rivelarsi una scelta controproducente e rischiosa per l’economia dell’eurozona, ma i parei sul tema sono discordanti.
Secondo il popolo tedesco, ad esempio, la politica restrittiva della Bce dovrà continuare, in quanto un’inflazione vischiosa (a giugno l’inflazione è aumentata del 6,4% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente) che riduce il potere di acquisto preoccupa più del conflitto e del clima. Un sondaggio recente effettuato dalla società autorevole tedesca Allenbasch, ha confermato che il 67% dei tedeschi teme più l’inflazione, di un possibile coinvolgimento della Germania nel conflitto Russo-Ucraino. Probabilmente l’ossessione verso l’inflazione è sicuramente giustificata dalla storia e nello specifico dall’iperinflazione tedesca scoppiata nel primo dopoguerra. Il timore di una perdita del potere d’acquisto si traduce in Germania in una riduzione dei consumi interni, fattore che ha contribuito alla recessione tecnica nella quale si trova ora la locomotiva d’Europa.
Il prodotto interno lordo tedesco quest’anno dovrebbe diminuire dello 0,40 % secondo i dati stimati dall’istituto Ifo (Leibniz Institute for Economic Research at the University of Munich) e nel 2024 la crescita sarà del 1,5%, in calo rispetto a quanto stimato all’inizio dell’anno.
L’ultima volta che l’economia tedesca è risultata in recessione tecnica era stata durante la pandemia, quando nei primi due trimestri dell’anno il PIL si ridusse a causa delle restrizioni che fermarono totalmente l’attività economica. Da allora l’economia tedesca non è più tornata ai livelli pre-pandemici.
Ma se per alcuni Paesi la politica monetaria restrittiva rappresenta attualmente la scelta più oculata e lungimirante altri Stati la considerano fattore scatenante di recessione.
L’Italia, ad esempio, sostiene che i tassi attualmente fissati dalla Bce siano sufficientemente alti da assicurare un ritorno tempestivo dell’inflazione verso l’obiettivo tendenziale del 2%.
Dello stesso pensiero è anche la Spagna che ha visto i primi importanti segnali di un indebolimento sul fronte inflazionistico: l’inflazione nel mese di giugno è stata del 1,90%; livello più basso da aprile 2021.
A trascinare verso il basso l’inflazione spagnola sono stati il calo dei prezzi dell’energia, dei carburanti, degli alimentari, delle bevande e dell’elettricità. È in corso anche una riduzione dei prezzi del carburante, complice il raffreddamento dei prezzi del petrolio sul mercato internazionale. Ciò influisce principalmente sulla componente dei trasporti dell’indice dei prezzi al consumo, che ha un peso del 14% nel paniere generale dell’inflazione. Il calo dei costi di trasporto sortisce gradualmente degli effetti su altri settori dell’economia, come ad esempio quello alimentari, che rappresenta il 22% del tasso di inflazione complessivo spagnolo e di conseguenza sui prezzi del settore ristorazione ed hospitality.
Anche il Francia la situazione è in miglioramento, con un’inflazione seppur alta (5.3% anno su anno) ma in contrazione rispetto a maggio (6%).
Secondo il nostro parere le politiche monetarie restrittive attuate dalle Banche Centrali sono risultate finora fondamentali ed efficaci per arginare il fenomeno inflazionistico, tuttavia, ulteriori incrementi dovrebbero considerare la sottile linea di demarcazione che sussiste tra un tasso elevato atto a contenere l’inflazione e un tasso eccessivo che può potenzialmente innescare una recessione.
Pertanto consigliamo investimenti in componente obbligazionaria a breve termine con la possibilità di considerare piano di conversione programmata su asset con scadenze, ad esempio a 5 e 7 anni soprattutto negli Stati Uniti.