L’imposizione immediata di nuovi dazi da parte dell’amministrazione Trump su Canada, Messico e Cina, con la possibilità di estenderli anche all’Unione Europea, sta generando significative ripercussioni economiche e finanziarie a livello globale. I mercati globali risentono dell’incertezza crescente, con un’impennata della volatilità che ha favorito asset rifugio come oro e dollaro.

In Europa, l’indice Eurostoxx 50 ha registrato una flessione del 2% nella seduta del 3 febbraio, subendo un destino simile a quello del Russell 2000 e del Nasdaq negli Stati Uniti: l’incertezza legata alle nuove tariffe ha innescato una serie di vendite sui mercati, mettendo gli investitori in uno stato di cauta attenzione.

Il rinvio di un mese dei dazi su Messico e Canada ha temporaneamente allentato le tensioni, favorendo negoziati più approfonditi. Secondo fonti vicine ai colloqui, questa proroga potrebbe favorire un compromesso accettabile per tutte le parti coinvolte. La decisione è stata accolta positivamente da Messico e Canada, che temevano un’escalation immediata delle barriere commerciali. In Europa, invece, cresce la preoccupazione per le possibili ripercussioni economiche di nuove misure protezionistiche, e i Paesi membri dell’UE restano divisi sulle possibili contromisure.

La Francia, guidata da Emmanuel Macron, ha adottato una linea dura, promettendo una risposta decisa nel caso in cui i prodotti europei venissero colpiti da tariffe punitive. Al contrario, i Paesi dell’Europa orientale si mostrano più cauti, privilegiando il mantenimento di rapporti solidi con gli alleati americani, soprattutto in considerazione delle minacce geopolitiche provenienti da Russia e Cina. Ma fortunatamente l’interesse nel preservare solide relazioni tra le due sponde dell’oceano è elevato, soprattutto considerando l’entità degli scambi tra le due economie.

Nel 2023, gli scambi commerciali tra Stati Uniti e Unione Europea hanno superato i 1.500 miliardi di euro, confermando la solidità dei legami economici tra le due sponde dell’Atlantico. Oltre al commercio di beni e servizi, gli investimenti diretti esteri tra le due economie rappresentano un pilastro dell’economia globale: insieme, contano per oltre il 40% del PIL mondiale e più del 40% degli scambi globali. Inoltre, le imprese europee e americane operanti nei reciproci mercati danno lavoro a oltre 14 milioni di persone, rendendo qualsiasi interruzione dei rapporti commerciali un rischio significativo.

L’amministrazione Trump punta a ridurre il deficit commerciale e rilanciare la produzione interna attraverso misure protezionistiche, ma queste potrebbero avere ripercussioni negative anche sull’economia statunitense. I dazi aumenterebbero i costi per i consumatori, rendendo più onerose le importazioni. Le aziende americane, dipendenti da forniture estere, potrebbero trasferire tali rincari sui clienti, con un impatto diretto sull’inflazione.

Questo scenario complicherebbe ulteriormente le scelte della Federal Reserve in materia di tassi di interesse in quanto la banca centrale si troverebbe a dover bilanciare il rischio di un’inflazione in crescita con quello di un rallentamento economico, rendendo le decisioni di politica monetaria più difficili e incerte.

Un ulteriore rischio è rappresentato dalle interruzioni nelle catene di approvvigionamento: molte aziende statunitensi operano all’interno di complesse reti di fornitura globali e i dazi potrebbero interrompere questi flussi produttivi, aumentando i costi di produzione e causando inefficienze.

Questo è particolarmente critico in settori come l’automotive e l’elettronica, dove la produzione è altamente globalizzata: i componenti vengono realizzati in diversi Paesi e assemblati su scala internazionale. A questo si aggiunge il rischio di ritorsioni commerciali da parte delle economie colpite, che potrebbero rispondere con misure analoghe, penalizzando le esportazioni americane e riducendo la competitività delle imprese statunitensi sui mercati globali.

Un esempio concreto è la recente risposta della Cina ai dazi del 10% imposti dagli Stati Uniti, con una serie di contromisure in vigore dal 10 febbraio 2025. Tra queste figurano dazi aggiuntivi del 15% su carbone e gas naturale liquefatto (GNL) statunitensi, oltre a un’imposta del 10% su petrolio greggio, macchinari agricoli, veicoli di grossa cilindrata e pick-up.

Oltre agli aumenti tariffari, Pechino ha avviato un’indagine antitrust su Google, imposto restrizioni all’export di materiali strategici come tungsteno e tellurio, presentato un reclamo presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) e inserito due aziende statunitensi nella sua lista di entità non affidabili.

Queste contromisure confermano la fermezza della Cina nel rispondere alle politiche protezionistiche statunitensi, pur lasciando aperta la porta ai negoziati per evitare un’ulteriore escalation della guerra commerciale.

Nonostante le tensioni geopolitiche, i dati aziendali USA restano solidi: il 40% delle società ha già pubblicato le trimestrali, con il 78% che ha battuto le stime, registrando una crescita del 14% anno su anno